Ci sono due paradigmi nell’Antico Testamento: uno è il paradigma dell’Esodo, quando il popolo di Israele passò dalla prigionia in Egitto alla libertà e l‘altro, quando il popolo di Israele, dopo essere stato in esilio a Babilonia tornò a Gerusalemme, trovò la città e il territorio circostante devastati. Allora Neemia, un profeta dell’Antico Testamento, invitò il popolo a ricostruire: “Venite, ricostruiamo” (Neemia 2,18), dando vita ad un nuovo inizio. Da questo secondo paradigma deriva la cosiddetta “Teologia della ricostruzione in Africa”, di cui il Sud Sudan è un esempio perfetto.
È il Paese più giovane dell’Africa, ma dopo oltre 70 anni di guerre civili e devastazione, si trova in fondo alla lista dei paesi più poveri e meno sviluppati del mondo, penultimo secondo WirtschaftsWoche e ultimo per l’UNDP. Le infrastrutture sono gravemente danneggiate, i servizi sanitari al collasso, con un medico ogni 65.000 persone e con un’ostetrica ogni 39.000; il sistema educativo è altrettanto problematico, constatata la mancanza di scuole e insegnanti. Inoltre, il sistema di trasporto conta solo 192 chilometri di strade asfaltate in tutto il paese, con stati come l‘Equatoria Occidentale collegati solo da sentieri fangosi decisamente impraticabili durante gli 8 mesi della stagione delle piogge. La ricostruzione delle infrastrutture in Sud Sudan è quindi fondamentale per lo sviluppo del Paese, ma la mancanza di collegamenti viari rende difficile, se non impossibile, trasportare materiali da costruzione nelle zone remote dello Stato. Per affrontare questa sfida, è necessario tornare ai materiali da costruzione convenzionali utilizzati per la realizzazione delle prime stazioni missionarie già 100 anni fa. Questi materiali sono facilmente reperibili.