Firenze ground zero

Via Mariti, un cratere di disperazione

«Le macerie, nel cuore della città, procuravano ai fiorentini una reazione tanto dolorosa e violenta che pareva dovesse distruggere anche le loro ossa. Era una reazione quasi assurda. Le donne urlavano. E non solo perché sotto le macerie aveva perso la vita un qualche loro parente o amico. Urlavano contro le macerie stesse che, col cambiare della luce del giorno, assumevano delle forme quasi umane, di gruppi di persone che lottavano fra di loro. Urlavano dunque le donne e si guardavano smarrite d’attorno come per ricercare le torri e i palazzi di pietra grigia che erano caduti per sempre. Firenze era un’altra, era diversa, non riconoscibile. E loro, i cittadini, uomini e donne, erano posti di fronte a un problema terribile, il futuro. E il futuro incuteva loro una grande paura: la paura di dover essere diversi da quel che erano stati prima dello scoppio delle mine tedesche. Paura giustificata sul momento.

Le mine, distruggendo i muri che erano loro familiari, li avevano lasciati soli, nel vuoto della distruzione. Questo stato d’animo non consentì ai fiorentini di valutare i suggerimenti che venivano dalle macerie; suggerimenti per una città rinnovata nel fisico e nello spirito. Era questa un’occasione che la guerra, come unica consolazione, avrebbe offerto in cambio di tante distruzioni. Distrutta la realtà antica, i cittadini non volevano e non potevano porsi, almeno sul momento, il problema dell’ignoto, di quel che sarebbe sorto al posto di ciò che era caduto. Si trattava di un pensiero estraneo ad ogni credibilità e possibilità; rappresentava la minaccia di un domani al quale avrebbero comunque dovuto adattarsi e che avrebbe potuto imporre loro di cambiare anche nell’animo, oltre che nelle abitudini. E in brevissimo tempo; anzi subito!»

Articolo completo si trova nell'edizione 144 del 2024 alle pagine 10-13.

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